IL POPOLO DI MEZZO: MIMMO GANGEMI di Arcangelo Badolati

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IL POPOLO DI MEZZO: MIMMO GANGEMI

di Arcangelo Badolati

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Quanto lontano si deve spingere un padre per regalare un futuro ai propri figli?

 

Il popolo di mezzo“: s’intitola così l’ultimo appassionante libro di Mimmo Gangemi.

È la storia di una famiglia emigrata dalla Sicilia, nei primi anni del Novecento, in cerca di fortuna in America. Una famiglia che dovrà fare i conti con i pregiudizi e il razzismo riservati agli italiani, che finiranno con il lavorare nelle miniere o nella costruzione delle reti ferroviarie oppure nei campi di cotone insieme con i nipoti degli “schiavi” di colore già a lungo sfruttati nei secoli precedenti.

Una storia dura e sfortunata – quella narrata dall’autore – che riserverà successo e “normalità” solo ai componenti della generazione successiva.

Le vicende del romanzo si snodano dunque in una nazione prodiga e crudele, in cui calabresi, campani, siciliani, pugliesi venivano chiamati con disprezzo «Negri», anche perché – scrive l’autore – «tanto bianchi non apparivano».

Ma qual è la trama? Masi e la sua famiglia, partiti dalla Sicilia, impattano sullo sfruttamento e sull’esclusione, sul pregiudizio e sul razzismo, che culminano in un barbaro linciaggio. Per i figli, Tony e Luigi, con indole e talenti differenti, si aprono strade difficili, tra le ondate della prima emigrazione e le due guerre mondiali. In un’America che cambia, ora sogno solo a osservarla da lontano, ora prodiga delle opportunità che sa concedere la terra promessa. Insofferente, il primo tenta di conquistarsi uno spazio, finché arriva a odiare l’inganno del nuovo mondo, e lo scianca con le sue vendette. Dotato di talento musicale, il secondo percorre la novità delle orchestrine jazz, imboccando la via per il successo.

Dai campi di cotone ai cantieri per le ferrovie, dalla Little Palermo di New Orleans alla Little Italy nella dimensione metropolitana di New York, dalla Mano Nera agli albori di Cosa Nostra, dai bordelli di Storyville ai grandi ritrovi del jazz, dai diseredati seppelliti ad Hart Island alla strage di Wall Street, da un amore travagliato al campo di internamento per italiani resistenti. In questa narrazione epica e struggente, Mimmo Gangemi ci fa rivivere il senso d’estraneità e una nostalgia divorante, la speranza di piegare il destino e il sogno del ritorno, in una nazione che va rapidamente mutando pelle.

Lo scrittore nato e cresciuto a Santa Cristina d’Aspromonte, con il cuore sempre tra i boschi incantati del massiccio calabrese e lo sguardo rivolto al mare dei miti che ben si gode dalla sua abitazione, vive a Palmi.

E’ vero che hai studiato il jazz, la storia di New Orleans, degli anarchici italiani negli States, le vicende della famiglia newyorchese Morello-Terranova per scrivere questo libro?
Si” – sorride l’autore – “mi sono molto documentato e abbandonato a letture approfondite. Ho studiato il jazz, scoprendo che originariamente si chiamava “jass” ma siccome spesso i burloni dell’epoca cancellavano sui manifesti la “j” lasciando solo “ass” che significa culo, sostituirono le due esse con due lettere zeta. Questa musica, poi amata in tutto il resto del mondo, è stata inventata dai siciliani che applicarono le sonorità degli strumenti a fiato e delle bande musicali dei loro originari paesi associandole agli spiritual dei negri impegnati a lavorare nei campi di cotone: una commistione straordinaria.

Mi viene in mente “Summer Time” cantata da Louis Armstrong ed Ella Ftizgerald….
Il primo disco prodotto in quegli anni lontani vide come protagonista un italiano di origine siciliana, Nick Larocca, e vendette, pensa, un milione e mezzo di copie: eravamo nel 1917. La musica entra nel romanzo attraverso la vita di Luigi che, al contrario del fratello Tony, investe i suoi talenti e la creatività nel jazz diventando un discreto strumentista che girerà per gli States tenendo concerti.

E Tony invece che vita sceglie?
Vuol vendicarsi dell’America che lo ha privato dei genitori ingiustamente linciati e impiccati. Diventa violento, si trasferisce a New York, fa amicizia con i Morello-Terranova creatori di quella che diventerà la celebra famiglia Genovese di Cosa Nostra, ma non entra a far parte dell’associazione mafiosa. Finisce in carcere a causa delle sue sortite e diventa anarchico, mettendo poi una bomba a Wall Street nel 1920. Poi finisce in un campo di concentramento per “resistenti” italiani.

Il popolo di mezzo” nasce da una storia vera?
No, la storia è inventata anche se i linciaggi e le impiccagioni degli italiani sono veri. Così come la presenza significativa degli anarchici: penso, per esempio, a Mario Fuda e Andrea Salsedo. Cinquecento italiani vennero rimpatriati in Italia, nel 1920, con l’accusa di anarchia. Ho approfondito la storia della “Mano Nera” e, quindi, della famiglia Morello – Terranova poi diventata “Genovese” con cui Tony entra in contatto senza tuttavia mai farne parte. In quegli anni a New Orleans c’era una comunità di italiani composta da 12.000 persone su un totale di popolazione che arrivava a 90.000. Il contesto entro cui si snodano le vite dei personaggi del libro è assolutamente reale.

Torni sul tema dell’emigrazione, dopo il tuo fortunatissimo romanzo “La Signora di Ellis Island”, è un fenomeno che dunque ti interessa e, in qualche modo, appartiene: perché?
E’ un argomento che conosco sin da bambino perché i miei nonni, sia paterni che materni, mi raccontavano nelle serate di freddo, davanti al braciere, a Santa Cristina, del dolore dell’emigrazione, un dolore che la loro generazione aveva profondamente subito.

Raffaele Nigro, presentando “Il popolo di mezzo” al Premio Strega, ti ha accostato a Mario Puzo e Corrado Alvaro e credo abbia ragione: questo è il tuo più bel romanzo?
Delego ai lettori. Sono loro i giudici supremi. Le mie sensazioni sono positive.

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