IL CASO, LA FORTUNA, LA GIUSTIZIA

 

IL CASO, LA FORTUNA, LA GIUSTIZIA

 

 

 

Ringraziando nuovamente gli amici di Madreterra per la possibilità di poter discutere – in senso ideale, certo – con la mia comunità di temi che riguardano la legalità e la giustizia, vorrei fare qualche considerazione sul rapporto tra quest’ultima e la fortuna, la sorte. Il caso, insomma.
Per farlo, voglio partire dall’incertezza che coglie tanti, troppi cittadini di fronte a un luogo – il tribunale – dove dovrebbero invece sentirsi al sicuro, perché deputato alla tutela dei loro diritti: e che, al contrario, sempre più spesso viene visto come un universo oscuro e pericoloso, retto da regole arcane e incomprensibili, dove in virtù di cavilli, leggi e leggine chi ha ragione può finire dolorosamente per sentirsi dare torto.

Lo so, che molte volte funziona così. E le recenti, tristi vicende che hanno riguardato – e riguardano – la magistratura non aiutano certo ad avere maggior fiducia nella giustizia terrena.
E allora, la mia provocazione è: perché non decidere le cause – almeno quelle civili – con un lancio di dadi?
Pensate a quanto tempo si potrebbe risparmiare. Non ci sarebbe bisogno di pagare bolli e contributi. Potremmo fare a meno dei giudici, perché basterebbe un pubblico ufficiale che sovraintenda al tiro registrando correttamente il punteggio. Sarebbero superflui, a ben vedere, anche gli avvocati: a ulteriore dimostrazione, lasciatemelo dire, che non ha veramente senso cercare di mettere l’un contro l’altra armata magistratura e avvocatura, come purtroppo fanno in tanti.

 

 

L’idea dei dadi non è affatto originale, si sa.
La sua rappresentazione più affascinante richiama uno dei miei personaggi letterari preferiti: il giudice Brigliadoca, l’immortale personaggio disegnato da Rabelais nelle avventure di Gargantua e Pantagruele.
Parliamo del sedicesimo secolo, non di ieri: eppure, la sfiducia nella giustizia sembra simile a quella dei nostri giorni.
La storia è troppo nota per non riassumerla solo in pochissime battute. Bridoye (questo il nome in lingua originale del mio onorevole collega), dopo aver esercitato per oltre quarant’anni le sue funzioni nel paese di Fonsbeton ed aver visto le sue oltre quattromila sentenze passare in giudicato superando tutti i gradi di impugnazione, a causa di una pronuncia clamorosamente contestata viene chiamato a discolparsi davanti alla corte suprema di Myrelingues. Giunto qui, finalmente svela al presidente Trinquamelle, che lo interroga, il perchè dell’errore: <forse la vista corta mi ha tradito e stavolta non ho visto bene il responso dei dadi>.

Perché, ecco appunto il colpo di scena, la verità è questa: quel giudice, da sempre, decideva le controversie proprio così, lanciando i dadi.
A chi, leggendo queste righe, viene - come penso e spero – da scandalizzarsi, chiedo provocatoriamente: perché no?
Se – come si dice - la giustizia degli uomini è così imperfetta, incerta, rischiosa, aleatoria, perché non tagliare la testa al toro (non al giudice, mi raccomando) e lasciar decidere direttamente ai dadi, o magari a una slot machine?
In fondo, la stessa cosa l’hanno fatta per tanto tempo nostri simili non tanto meno civilizzati di noi (il Medioevo non è più, ormai si sa, quell’età del buio per come l’hanno descritta quei furbacchioni degli illuministi): parlo dell’ordalìa, o giudizio divino, in cui la condanna o l’assoluzione dell’imputato veniva demandata al superamento o meno di una prova dolorosa, dalla quale si sarebbe evinta la volontà di Dio e quindi la giusta decisione del caso concreto.

Nella vostra risposta negativa e scandalizzata a questa domanda (“perché no?” “perché non si fa, non è serio”), pensateci bene, c’è la prova del fatto che non possiamo non aver fiducia nella nostra giustizia. Intendo dire: nella giustizia terrena in generale, non solo in quella italiana.
Perché noi, istintivamente, alla giustizia chiediamo tre cose ben precise.
La prima: che mi permetta di comprendere perché il mio giudice ha deciso in quel determinato modo.
La seconda: che mi permetta di far correggere la sua decisione, se la ritengo sbagliata.
La terza: che mi dia sempre ragione.

Ora, sulla terza non c’è nulla da fare. Tocca rassegnarsi, non si può avere nessuna certezza. Alla fine di un processo, una delle parti che era certa di essere dalla parte del giusto, si sentirà inevitabilmente dire che non era così (prendendosela con il giudice o con il suo avvocato) Ricordatevene, prima di decidere di far causa al vicino.
Tutto il resto, però, c’è. E funziona. E funzionerà sempre.
Fin quando le sentenze saranno firmate da un giudice che se ne assume la responsabilità; che ne spiega il contenuto con la motivazione – che è il luogo magico in cui il sapere del giudicante, facendosi esplicito, si mette davvero al servizio di quel popolo in nome del quale emette la sentenza - e che sa che altri giudici potranno modificare la sua decisione, questo sarà il migliore dei sistemi possibili.
E, per questo, merita fiducia.

Perché è vero, può capitare una svista. Un errore, un’interpretazione non meditata oppure anche semplicemente – l’ho detto – diversa da quella sperata. I giudici sbagliano, perché non esiste nessun lavoro, nessuna professione che non abbia margine di errore umano.
Ma mentre in alcune non è dato sperare in un recupero, in una correzione, nella giustizia, per fortuna, questo accade.
Esistono proprio a questo scopo gli appelli, i ricorsi in Cassazione e i tanti altri strumenti previsti dalla legge. Persino le sentenze definitive, a determinate condizioni, possono sempre essere corrette.
Ed è per questo che, anche se la critichiamo - giustamente – quando è lenta, quando ci delude, quando chi la amministra non è degno di una funzione così elevata, in fondo noi alla nostra dea con la bilancia vogliamo bene. Ci crediamo, in lei.
Perché ne abbiamo intimamente bisogno, e non la baratteremmo mai con un lancio di dadi.
Volete scommettere?

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